Simone Fazio

Scritti

Santa Margherita

Silvia Ferrari

La pittura di Simone Fazio è un fatto di necessità. Nasce come urgenza espressiva, come naturale espressione del proprio comunicare al mondo la perenne ricerca di un equilibrio, per poi negarlo nelle sue regole più rigidamente statiche; nasce come esigenza interiore così impellente da svilupparsi come esperienza autodidatta. Il disegno, invece, no; è il risultato di una lunga formazione scientifica di cui è possibile riconoscere i tratti di severità e rigore nelle anatomie a volte convulse delle figure. Volti e corpi popolano l’universo iconografico dell’autore nell’espressione di una fisicità esasperata e di una carica aggressiva, date da una sorta di lotta intima che la pelle pare mettere in essere con lo scheletro, così come i tendini con i muscoli, i lineamenti del viso con un ormai definitivamente mancato stato di neutralità.

Il corpo umano è il luogo dove si compie questa lotta interiore e porta visibili i segni della fuga dal mondo e insieme del suo anelito; anche quando assurge alla santità di un’aureola dorata, non manca di evidenziarne il faticoso percorso anteriore, ad esempio nelle forme marcate e affaticate delle spalle e nelle ombre livide del collo. La stasi non risiede nell’uomo; così sembra insinuare l’artista nello scorrere dei ritratti, nel ripetersi di un volto in infinite variabili di stati d’animo, dalla tristezza all’ira, dalla disperazione all’isterìa, dalla meditazione allo sbeffeggio.

A scandire e interrompere questa catena seriale vi è, infine, la quiete o, come lo definisce l’artista stesso, “l’incomprensibile”: dipinti di un profondissimo nero, opere astratte che lasciano sempre più spazio al gesto dove il colore è steso in molteplici strati che si sovrappongono e si compenetrano fino a divenire materia. La celebrazione del nero è il personale omaggio di Fazio alla vita e alla persona.

Prima ancora del soggetto, dunque, c’è la pittura.

L’opera presentata oggi, composta da trenta tavole di piccolo formato realizzate a olio, è dedicata alla figura di Margherita, nobildonna del XIII secolo che ha vissuto la passione di un amore, il dolore della sua morte, la disperazione della solitudine e la redenzione di una vita riscattata nell’aiuto dei più deboli fino alla santificazione.

Il tema è un pretesto; più che un fatto, è fiction. L’intento ultimo però non è quello di raccontare, ma di riportare quell’esperienza all’attualità di oggi: immaginario e realtà vissuti attraverso la fisicità contemporanea. Il lavoro coglie gli spunti narrativi dalla storia ma li restituisce filtrati dalla sensibilità personale dell’interprete in una forma priva di consequenzialità, scardinando l’intreccio originale per soffermarsi invece su diversi episodi emblematici del percorso emotivo della protagonista. Tra questi, alcuni momenti come la maternità e la vanitas sono riletture attualizzate di figure allegoriche tratte dal repertorio dell’arte classica, memori delle riconoscibili simbologie tradizionali come l’uovo, lo scheletro, la selva, che qui vengono affiancate a oggetti e ed elementi apparentemente incongruenti come le confezioni di psicofarmaci.

L’installazione si nutre della contaminazioni di stimoli del passato e del presente ma continua a interrogarsi su un’unica questione; l’uomo e la sua relazione con la vita nel mondo.

Silvia Ferrari