Simone Fazio

Scritti

PRETTY HATE SOLO

Maria Letizia Tega

È questo, probabilmente, che cerchiamo attraverso la vita, niente altro che questo, la più grande sofferenza possibile, per diventare noi stessi prima di morire. Louis-Ferdinand Céline

Dolore, ferite e rabbia. Quelle ferite sanguinanti che gocciolano nell’anima, turbandola per sempre, sono il pane quotidiano di Simone Fazio.

Inquietudine silenziosa e imbavagliata, passaggio obbligato e costante della vita.

Non si tratta di una sensazione da reprimere ma di un demone da slegare, e invitare a giocare con noi.

Senza sfidarlo, vincerebbe, ma convivendo con lui, avendone cura, preservandolo, esplorandolo e vivendolo fino in fondo.

Un artista che rovista tra le macerie della vita, scoprendo devastazione, assassini, violenza e disincanto, che scava a mani nude senza paura di tagliarsi, anzi quasi cercando il dolore della carne lacerata, perché il corpo è il solo veicolo di quello sconforto da cui non possiamo scappare.

O forse sì?

Perché se Fazio ama addentrarsi nell’Ade, tra le tenebre del cuore, al tempo stesso non smette mai di sperimentare, di evolversi, di avanzare nella sua produzione. Una pittura viva più che mai che obbliga alla riflessione, ed esorta a prendere coscienza di sé, un’azione coraggiosa e salutare per andare incontro alla morte.

Un memento mori che riesce ad essere macabro e irriverente insieme, tanto che pare a volte di scorgere quell’ironia tipica del Troisi di “Non ci resta che piangere” quando, al predicatore che gli ricorda il suo essere mortale, risponde « sì sì no, mò me lo segno» , scardinando la sacralità della locuzione latina.

Quello che sorprende è che le tele di Simone Fazio sono un compendio di classico e rock, mescolati abilmente sino a giungere all’equilibrio perfetto: lo straniamento e la sfrontatezza dei suoi soggetti danno vita, è paradossale, ad una serie di vanitas postmoderne che rivelano le sue radici classiche e la sua appassionata ispirazione caravaggesca.

A un primo superficiale approccio ci si potrebbe aspettare da un batterista hard rock, perché Simone è anche questo, ribellione e desiderio di rivolta, e dunque rimanere spiazzati davanti a opere impeccabili, rifinite maniacalmente, perfette, senza per questo cadere nel mero esercizio stilistico, o ancora stupirsi per la tecnica scelta, quella dell’imperituro colore ad olio, eppure è necessario andare oltre gli stereotipi, per comprendere che oggi tenere in mano un pennello e dipingere a pieno ritmo è quanto di più estremo possa esserci.

La rappresentazione della morte nelle vanitas di Simone Fazio è cruda, spietata, lontana dalle convenzioni del Rinascimento, eppure affatto spettrale, piena di energia, una fioritura figurata e reale che ci concede un respiro di sollievo: il vero sopravvive all’intravisto.

Il linguaggio è volutamente opprimente, ma non è allo spavento che mira l’artista, mentre si essicca il colore, lentamente, dandogli il tempo di riflettere, di correggere, di dimenticare, diventa palpabile la sua schiettezza.

Sì perché i suoi quadri hanno lo stesso proposito di un amico che pur di svegliarti dal tuo torpore è disposto a schiaffeggiarti, lo stesso amico che ti mostra che il tuo castello di carte è tenuto insieme da una colla chiamata psicofarmaci.

Farmaci e droghe (vi è davvero una differenza tra le due cose?), corpi nudi, eviscerati, cuori trafitti, bruciati o fertili sono parte intrinseca del percorso dell’artista modenese che ha evidentemente studiato disegno anatomico e chirurgico, assimilando la sua formazione alla sua poetica fino a renderla un tratto distintivo del suo linguaggio espressivo.

Forma e coscienza sono indivisibili nell’argot di Simone Fazio, osservare organi vitali posati su di un piatto ancora pulsanti è solo un altro modo di leggere il pensiero, un’autopsia di un’anima morta che palpita in un corpo reale.

Non a caso i suoi soggetti sono stremati e angosciati, a volte audaci e perversi, soltanto così possono mostrare il loro tormento e convivere con esso o chissà, liberarsene.