Gianluca Marziani
Catalogo della mostra “CORPI” Gestalt Gallery – Pietrasanta 2010
Nel 2007 mi colpì il racconto che accompagnava la mostra di Simone Fazio dal titolo “Santa Margherita”. Lessi sul web la storia da cui nacque il progetto: la Margherita era una nobildonna bella e colta che visse nel XI secolo, prima dedita alle passioni amorose e familiari, poi distrutta dalla perdita del marito, quindi impegnata nella preghiera e nelle opere di bene, alla ricerca di un passaggio laico verso la propria luce e il giusto destino. A narrarci la santa laica una serie di quadri dalle stesure morbide e analitiche, quasi fossero il sistema nervoso della figurazione. Una donna compressa, afflitta nello sguardo, bellissima nella sua verità interiore, nella sua battaglia tra eros, vanitas e thanatos. Le opere ce la mostravano in un fascio di tensioni muscolari, nervi allungati come liane, mani eccitate, occhi radianti, sguardi febbrili… Il corpo era quello di sempre, denudato e imperfetto come nel Seicento, così anche il volto dalle radici omeriche e dal calibrato erotismo, elegante e tragico, spossato ma indomito. Corpo e volto che somigliavano ai corpi e volti della pittura passata, basti ripensare ad artisti della carne come Lucian Freud, Fausto Pirandello, Alberto Ziveri, Chuck Close; o molto più indietro fino a Rembrandt, Caravaggio, Jusepe de Ribera, Artemisia Gentileschi. Corpi e volti di sempre che però attraversavano la storia e il conseguente eterno domani, trasformandosi nei volti e nei corpi che ribadiscono l’attualità del ritratto narrativo.
A tre anni da quel felice lampo, ho accettato di dedicarmi al nuovo lavoro di Simone Fazio. Subito mi è tornato in mente quell’episodio di Margherita, supportando una personale certezza: che la pittura debba avere una sua capienza narrativa, legare l’individuo al patrimonio umanitario sul filo di un’ambizione morale, di un contenuto “romanzesco”, veggente, condivisibile. Non possiamo tollerare una pittura che guarda se stessa allo specchio, interrogandosi sui propri limiti linguistici, sulla consistenza segnica o materica, sulle valenze cromatiche e tonali. Né ci interessa un dipingere che si aggancia ai generi classici senza il cortocircuito ulteriore, senza la coscienza che quel genere (ritratto, paesaggio, natura morta…) vada ripensato nei suoi codici più profondi. Il quadro contemporaneo chiede tensione letteraria dietro la superficie, completamenti non solo teorici ma anche narrativi (preso atto che tutta la pittura riuscita ingloba una propria concettualità). Ci vuole la sorpresa della rivelazione attraverso il racconto, l’esempio plausibile che si trasformi in un nuovo archetipo. Ci vuole il battito del romanzo, un filo narrativo che dia al soggetto privato il tempo e lo spazio della Storia.
Simone Fazio pone lo sguardo a distanza minima dal corpo umano. Sembra avvicinarsi con circospezione, quasi timidamente davanti ai frangenti privati di un’umanità che insegue ossigeno emotivo e liberazione interiore. Ogni volta, infatti, non vedi una quiete reale ma una sospensione gravitazionale, un dolore immobile e silenzioso, un’incubazione privata. Le carni denudate sono un bersaglio davanti al nostro sguardo, si immolano visivamente sotto il peso del dolore annunciato. La loro è una gestazione fatale dentro il margine geografico della sofferenza, un tumulto che si reitera dal di dentro, nella coscienza afflitta, nello spirito sanguinante. “Nuda Veritas” lo ribadisce con una visione frontale del corpo nudo, verticale e inquieto, solcato da un rigagnolo di sangue che esce dal pezzo di carne nella mano della protagonista. La pelle si rivela un diario globulare, un pianeta mercuriale di turbolenze ancestrali, una sorta di isola preistorica che galleggia nei confini del telaio.
I corpi dipinti emanano energie, senti l’intensità della vibrazione molecolare, le scariche chimiche della femminilità, la voglia di sopportare il dolore nel tentativo di una futura salvezza. Prevale la gravità posturale, il disporsi con le membra attorno al bianco denso o al nero stellare del fondale. Non dubiti mai della loro fatica a resistere, eretti e vigili dentro al battito del mondo; ma capisci anche che alla fatica corrisponde l’ambizione del riscatto, della fuga in avanti, del rimettere tutto in gioco. Ancora una volta. Fino alla prossima e oltre, finché il battito cardiaco segna il ritmo dei vivi.
Pensavo ad un film che ha raccontato la passione amorosa attraverso la carne fredda, la mestizia rituale, l’improvviso fragore animalesco, l’accoppiamento muscolare e sudato.
Mi riferisco a “Intimacy” di Patrice Chereau, un viaggio nel circolo polare del tradimento, nella fermezza che indurisce gli sguardi e porta inverno tra umani alla deriva. I corpi dei quadri dialogano con quella drammaturgia silenziosa, ne respirano la stessa aria densa. Non è semplice da descrivere ma è una sensazione turbativa, un modus che perimetra la carne umana con chirurgia sentimentale, una vivisezione degli arti, del busto, della testa, degli sguardi, dei gemiti, dei lamenti, delle grida…
La morte è ad un passo dai corpi che Simone dipinge. Vedi la donna sdraiata nell’acqua, osservi i suoi campi energetici, il meccanicismo dei riflessi, le vibrazioni di luce e capisci che il diaframma tra vita e morte si attraversa in un istante minimo ma definitivo. Il dialogo è proprio tra questi due piani opposti e compenetrati: la vita nella sua moltitudine emotiva, la morte nella sua natura implacabile e silenziosa. Ad unirli la dimensione cromatica del buio, una quinta non più scenica ma ormai cosmica, una galassia liquida che inserisce le storie individuali nel motore infinito dell’universo. Il ritratto narrativo di Simone nasce così, da un processo ambizioso che immette i suoi “eroi” denudati nella visione olistica dei grandi flussi energetici. Storie di persone più o meno illustri, eventi del passato, invenzioni sul presente, citazioni letterarie e cinematografiche: le avventure di vita vissuta combaciano con una visione instabile del dipingere, con una gestazione empatica in cui micromondo e macromondo parlano l’esperanto dei segni. Assistiamo allo spettacolo del corpo tragico, lo riconosciamo, ne ricordiamo azioni e inazioni, tempi e modi. Corpo di Sofocle e Shakespeare, corpo biblico e dantesco, corpo darwiniano e postorganico; corpo che è anche particella di un insieme abnorme e irraggiungibile, massa alla deriva nel nero, quasi un flash romantico tra miliardi di stelle moribonde.